A Hyères, i tramonti, sono solo quelli che ti fulminano le pupille nel tardo pomeriggio. Per tutto il resto, fra i giardini e le rocce a picco sulla Costa Azzurra c’è spazio solo per albe, prime luci, origini, inizi. Come i raggi che si distendono dal cuore del Festival di Moda, Fotografia e Accessori di Hyères a scaldare ogni coordinata geografica. Sin dalla sua fondazione nel 1986, la kermesse francese promuove e supporta le creazioni internazionali di designer emergenti (negli anni ha contribuito a scoprire talenti come Anthony Vaccarello, Julien Dossena, Viktor & Rolf, Rushemy Botter e Lisi Herrebrugh, fondatori di Botter). Fra i dieci finalisti della 38esima edizione, solo in due new talent della moda hanno fatto all-in di riconoscimenti: Igor Dieryck, vincitore del Grand Prix della giuria Première Vision, del Prix du Public della Città di Hyères e del premio 19M Métiers d’Art istituito da Chanel; e Petra Fagerstrom, che ha ricevuto il Prix l’Atelier des Matières di Chanel, e il Mercedes-Benz Sustainability Prize, il riconoscimento istituito dal casato automotive tedesco a supporto della ricerca e sviluppo di pratiche sostenibili nella moda. Mentore speciale di questa edizione, Sandra Sándor, Founder e Creative Director of Nanushka, che ha seguito tutti i finalisti nella creazione di un progetto eco-oriented, tanto dal punto di vista del confezionamento delle collezioni quanto della creazione di un green business plan.

Fra flûte di champagne e mousse au chocolat, passerelle emozionate e presentazioni commosse, fra gli angoli del giardino cubista di Villa Noailles - dove si sono svolte le premiazioni - la residenza centenaria dei visconti di Noailles, coppia di aristocratici mecenati di cui Coco Chanel era amica (specialmente della moglie, Marie-Louise de Noailles), abbiamo chiesto ai designer della moda di oggi e, quindi, di domani, cosa vorrebbero domandare/cambiare/criticare al fashion system contemporaneo.

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Lukas Müller
LEEVI IKÄHEIMO

Leevi Ikaheimo, Finlandia

Abbiamo davvero bisogno di tutti questi loghi?

Abbiamo davvero bisogno di tutti questi loghi? Abbiamo davvero bisogno di tutte queste magliette bianche? Abbiamo davvero bisogno di tutti questi vestiti? Quand’è che ritorneremo a divertirci con la moda? Per me creare moda significa divertirsi, giocare, osare. E la fiamma che mi ha fatto iniziare questo lavoro e che mi farà andare avanti.

Il titolo della collezione è No pain, no glamour, ed essenzialmente è un studio sociologico teorizzato attraverso vestiti sullo sguardo che gli esseri umani hanno verso gli altri esseri umani, fin dalla notte dei tempi. Mi sono ispirato al mondo delle action figures e dei supereroi, un tipo di fisicità e prestanza a cui i bambini sono abituati fin da piccoli, tant’è che finiscono per normalizzare questo tipo di corpo, così mascolino e muscolare. Io volevo creare i miei personalissimi giocattoli, ispirati all’immaginario dei rave party di Berlino, non-luoghi dove solitamente si va per scappare dalla vita normale. E giocare. E’ quello che vogliono i miei supereroi, denunciare il sistema e liberarci dagli stereotipi, noi e i nostri alter ego.

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Lukas Müller
TIAGO BESSA

Tiago Bessa, Portogallo

Perché la moda ha perso il suo significato?

Perché la moda ha perso il suo significato? Certo, l’estetica è importante, le collezioni possono essere bellissime ma, a volte, mi chiedo: che cosa vogliono comunicare davvero tutti questi vestiti?

La mia collezione si chiama Ermafrodita: voi ci vedete gli abiti, io ci vedo il mio percorso di psicoterapia, il raggiungimento alla consapevolezza del mio essere non binario. L’ho immaginata in pieno lockdown, ho avuto mooolto tempo a disposizione per fare ricerca e lavorarci su, non solo da un punto di vista tecnico ma anche di significato. In tutto questo percorso di studio dei materiali, e di me stesso, ho trovato il tema che avrei voluto sviluppare: la chirurgia plastica non consensuale fra persone intersex. Ho pensato fosse perfetto per rappresentare lo sguardo giudicante che spesso la società binaria nei confronti delle diverse sessualità. Come metafore concrete dei miei pensieri ho usato le silhouette delle orchidee, simbolo di genitali e ambiguità.

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PETRA FAGERSTROM

Petra Fagerstrom, Svezia

Perché ci sono così poche creative director donne?

Perché ci sono così poche creative director donne? Tutte le grandi maison di moda e i grandi gruppi del lusso sembrano preferire solo direttori creativi maschi. Vorrei vedere più donne costruire il presente e il futuro della moda. Non faccio altro che pensarci.

Ho dedicato la mia prima collezione a mia nonna, una paracadutista che ha vissuto (e fatto) la guerra in Unione Sovietica. Quando non indossava i vestiti da militare, amava gli abiti dalle stampe floreali e le gonne leggerissime, da questi due mondi l’ispirazione per confezionare questi abiti. Ho anche sviluppato una speciale tecnica di plissettatura che permette, in base a come il tessuto si muove, di mostrare due diverse immagini. Queste stampe sono riprese da antiche cartoline che mia nonna mi aveva regalato, arrivano dalla California, mi diceva sempre che sognava di andarci prima o poi, purtroppo non ha mai realizzato il suo sogno, ma lo faccio vivere sulle mie gonne. Questo racconto è tanto intimo quanto può essere tristemente attuale per molte famiglie che oggi vivono la guerra, voglio dedicare questa collezione anche a loro. Non è stato facile sintetizzare tutti questi pensieri in una collezione ma ho iniziato a lavorarci su appena dopo l’invasione della Russia in Ucraina, quasi mossa da una spinta improvvisa di voler comunicare a mio modo.

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ALEC BIZBY

Alec Bizby, Inghilterra

Perché vi interessano solo i soldi?

Perché vi interessano solo le collezioni commerciali? Perché vi interessano solo i soldi? La moda è business, certo, ma dovrebbe in primis essere arte. Non comprometterei mai la mia creatività per i soldi. Preferisco fare bei vestiti e non avere soldi, che essere ricco ma con vestiti poveri di anima.

Mi sono laureato quest’anno alla Central Saint Martins di Londra, ho seguito uno stage da Alexander McQueen e adesso sono qui. Non so cosa succederà adesso, se ritornerò lì o se continuerò a lavorare solo sul mio brand, pensiamoci step by step. Questa collezione è una lettera d’amore a mio padre, che è tristemente mancato l’anno scorso, crearla è stato un modo di placare il dolore che avevo dentro, focalizzando le energie su qualcosa di costruttivo.

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MARC SANZ PEY

Marc Sanz Pey, Spagna

Perché vi dimenticate degli artigiani?

Il mio scopo di vita e di lavoro sarà quello di viaggiare ovunque per conoscere gli artigiani e le loro tecniche, e preservarle dall’oblio. Ed è proprio questo quello che chiederei ai big della moda: perché spesso vi dimenticate degli artigiani? Perché non fornite a noi, nuove generazioni, gli strumenti per preservarle?

Cosa succederebbe se i pirati e gli hippies abitassero a Ibiza? Ecco, questa collezione immagina i loro guardaroba. Quando ho scoperto che parte della mia famiglia proveniva da quelle zone, sono andato subito a cercare le mie origini per ritrovarle nei tessuti, negli intrecci, nelle tecniche di tessitura. Ho scoperto che in antichità l’isola era stata colonizzata dai pirati, che cercavano di proteggersi l’un l’altro dagli attacchi esterni. Gli hippie invece che l’hanno abitata anni dopo, hanno lasciato sull’isola quel senso di ribellione nei confronti di una società che non era, e forse non è ancora, pronta al nudismo, alla libertà di essere se stessi. Ho utilizzato un tessuto tipico locale, lliangos, lavorato con un’antica tecnica artigiana e eco-friendly. Inoltre, tutti i capi hanno un sistema di ‘cinghie’ che abbraccia il corpo, qualsiasi corpo, non ne esclude nessuno, anche se si trasforma.

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JUNG EUN LEE

Jung Eun Lee, Corea del Sud

Perché produciamo così tanto?

Ho solo una domanda, secca e diretta: perché produciamo così tanto? Capisco l’esigenza di ogni brand di creare collezioni, di vendere, di fare marketing. Ma forse è tutto troppo.

Ho iniziato a immaginare il concept dietro la collezione quando, durante il Covid, si incolpava gli animali per aver diffuso il virus. Ho iniziato invece a pensare a quando nell’industria del lusso, invece, certi animali esotici siano celebrati e (stra)pagati, fino a appresentare l’estremo benessere. Così ho deciso che avrei cucito la pelle degli animali sui miei vestiti, senza ovviamente usare la pelle vera. Ho sviluppato delle “corazze” alternative realizzate con scarti di produzione, pelle di cactus, poliestere riciclato… Il capo più rappresentativo di questo processo è una giacca ricoperta da finte piume di pavone (ci sono volute 300 ore per creare le piume e ricamarle sulla giacca). Se guardi bene l’etichetta recita “You wear the most beautiful animal in the world” (stai indossando l’animale più bello al mondo).

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FENGYUAN DAI

Fengyuan Dai, Francia

Perché spesso chi crea non conosce i desideri di chi compra?

Qual è lo scopo della moda oggi? Cosa e quanto dobbiamo fare? Come dobbiamo lavorare con gli altri? E chi sono gli altri? Chi ci compra e per chi dobbiamo creare?

Sono nato in Cina e cresciuto in Francia, la mia vita è stata, ed è tuttora una “ricerca dell’equilibrio” tra culture. E vorrei trasmettere proprio questo balance attraverso le mie collezioni, dalla dolcezza dei colori pastello metafora della connessione e apertura verso gli altri, alle cinture che ricoprono i look, un po’ a proteggere, un po’ a educare i corpi, come a dire “la mia libertà finisce dove inizia la tua”.

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IGOR DIERYCK

Igor Dieryck, Belgio

Perché non raccontate agli studenti la verità sull’industria della moda?

Fino al periodo dell’università io e i miei amici avevamo tanti sogni, ma quando abbiamo iniziato a lavorare nel mondo della moda abbiamo realizzato che era tutto molto più difficile di quello che appariva dall’esterno. Tu vedi le sfilate, le foto, i sorrisi ma non sai effettivamente cosa succede dietro, c’è un sacco di lavoro e tantissime persone coinvolte. Da giovane designer posso dire che questo mondo ti riserva un sacco di sorprese, positive e negative. Il trick è un po’ trovare l’equilibrio tra l’arte di creare moda e l’arte di vendere la moda, i vestiti sono fatti per essere indossati, non solo ammirati come sculture in un museo.

Ho studiato all’Accademia Reale di Belle Arti di Anversa, mi sono laureato l’ano scorso e ho iniziato a lavorare come designer a Parigi per una grande maison. Questa collezione è ispirata al mio lavoro come receptionist in un hotel quando studiavo ad Antwerp, da qui il titolo Yessir, e gioca con i codici e le proporzioni del tailoring delle uniformi da concierge mixate allo streetwear destrutturato.

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NORMAN MABIRE-LARGUIER

Norman Mabire-Larguier, Francia

Perché dobbiamo uniformarci?

Vorrei che ognuno fosse se stesso, nella vita quanto nella moda, che incarnasse quello in cui crede, non dobbiamo cambiarci a vicenda, così diventiamo tutti uguali.

Volevo che i corpi si intravedessero attraverso i miei vestiti, chi li indossa è come una crisalide. Mostrando e, al tempo stesso coprendo, quello che ho difficoltà a dire a parole. Giocare con l’implicito e l’esplicito, libertà e restrizione, protezione e violenza, temi che mi hanno accompagnato per tutta la vita, mentre formavo il mio carattere in contrasto con una società aggressiva.

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BO KWON MIN

Bo Kwon Min, Corea del Sud

Perché sottovalutate il colore nero?

Amo il nero vorrei che ci fossero più collezioni toto black. Penso sia sottovalutato.

I miei abiti sono ispirati alle e dalle città, le costruzioni, le architetture a contrasto, i paesaggi metropolitani (uno dei capi iconici è lo slip dress a tre strati letteralmente bruciato con un accendino) e poi dalle poesie coreane, soprattutto quelle che parlano di non-emozioni. Lo so, può sembrare strano, ma secondo me ammorbidire le emozioni serve a guardare alla vita in modo più chiaro.