Cosa sta succedendo in Sudan è difficile da descrivere. La cronaca internazionale se ne occupa con sottile prudenza da settimane. Sui Twitter, Facebook e Instagram le rare voci che riescono a superare il blackout di Internet ordinato dal governo raccontano una situazione sconvolgente. Fucilate contro le case dei civili, corpi bruciati, cadaveri gettati nel Nilo, blocchi stradali per impedire ai musulmani di recarsi a pregare nelle moschee. E stupri continui di donne, ragazze, ragazzi, bambini, che vengono registrati con implacabile sgomento negli ospedali della capitale Khartoum. Le notizie dei massacri in Sudan sono arrivato anche da Rihanna, che nelle sue Instagram Stories ha postato una preghiera di diffusione sulla tremenda situazione attuale nel paese. La denuncia social della popstar/imprenditrice ha raggiunto anche chi non ha l’occhio attento su giornali, giornalisti e complessità del continente africano, rendendo definitivamente pubblica la questione.

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Instagram/Rihanna

L’instabilità politica del Sudan oggi ha una lunga storia. Enorme macrocosmo a sud dell’Egitto, affacciato sul Mar Rosso, teatro di colonizzazioni e occupazioni più o meno strategiche lungo tutta la sua storia, il paese degli uomini neri (questo il suo significato in lingua araba) è stato spesso protagonista scomodo delle cronache giornalistiche degli ultimi anni. Dal 1989, anno in cui Omar al Bashir ha preso il potere con un colpo di Stato, il Sudan è stato attraversato da lunghe guerre civili, repressioni per gli sfollati del Darfur, conflitti per la richiesta di indipendenza del Sud Sudan prevalentemente cristiano con conseguenti profughi in Kenya, Eritrea, Etiopia. Le crisi economiche continue hanno svalutato la moneta e indebolito anche gli investimenti sulla principale ricchezza del paese, il petrolio, giogo di interessi internazionali di sfruttamento. Gli osservatori dei diritti umani non hanno potuto fare altro che registrare e denunciare con vigore l’incapacità governativa del regime sudanese. Lo scorso dicembre 2018 le proteste in Sudan contro il governo sono diventate sempre più pressanti. La mancanza di pane, benzina, denaro contante e generi di prima necessità ha spinto le persone in strada per chiedere di vivere in uno stato democratico, pluralista e laico. Ad Atbara, Gadaref e nelle città gemelle Omdurman e Khartoum le manifestazioni pacifiche hanno invaso le strade, e non si sono mai più fermate. A marzo 2019 Nic Cheeseman, giornalista del Sudafrica, aveva fotografato implacabilmente la situazione su Internazionale: “La vergogna dell’ultima crisi del Sudan è dunque su due livelli. Il primo è il tentativo del presidente Al Bashir di restare attaccato al potere a ogni costo, ponendo i suoi interessi davanti al bene nazionale e mandando nel frattempo in rovina il paese. Il secondo è l’incapacità dei politici e dei mezzi d’informazione di tutto il mondo di parlare di ciò che sta succedendo in Sudan”. Qualcosa è riuscito a superare i confini insormontabili della cronaca grazie ai social quando ad aprile Alaa Salah, una donna che protestava contro il regime, ha intonato un canto di rivoluzione indossando la veste da "kandaka", la regina dell’antica Nubia da cui nacque la magia del Sudan odierno. È bastata una foto di Alaa Salah in Sudan per mettere il mondo davanti al dolore degli altri. La Lady Liberty, o Woman in White, è stato il simbolo della effimera primavera sudanese. Ma la difficoltà di comprensione della situazione ha presto chiuso l’ennesimo spiraglio di conoscenza.

Nel frattempo la repressione è stata ampiamente sponsorizzata dal governo, che ha dato nulla osta ai militari e alla polizia per fermare le proteste. Anche sparando ad altezza uomo. Nelle prime manifestazioni di dicembre 2018 ci sono state 37 vittime in 6 giorni, ma il numero dei morti in Sudan fino a oggi è pressoché sconosciuto. Sono stime destinate infaustamente a crescere, di molte delle vittime non si conosceranno mai né volti né nomi. Le proteste e la repressione del governo viaggiano in parallelo. Da quando lo scorso 11 aprile un colpo di stato militare ha deposto ufficialmente Omar Al Bashir, oggi rinchiuso in prigione a nord di Khartoum, le violenze dei gruppi militari e paramilitari sono un incubo ad occhi aperti per la popolazione. I corpi senza vita vengono gettati nel Nilo senza riguardo, raccontano testimoni oculari a The New Arab. Sono le firme dei temutissimi janjaweed, i miliziani capitanati da Muhammad Hamdan Dalgo "Hemedti" già al servizio del governo di Al Bashir. In Sudan i janjaweed o janjawit sono diventati tristemente celebri durante la guerra del Darfur per i truci metodi di devastazione dei villaggi. Massimo Alberizzi di Africa Express spiega come i janjaweed oggi abbiano ripulito il nome in Rapid Support Forces, ma il rebranding non ha di certo eliminato la loro violenza distintiva. Fermano auto per strada, tirano fuori i passeggeri e li picchiano finché non sono moribondi. La Sudanese Professionals Association, l’associazione che fa capo all’alleanza dei gruppi democratici, ha denunciato che ci sono i janjaweed dietro l'ultimo colpo sanguinoso di fronte al quartier generale dell'esercito sudanese nella capitale, lo scorso 3 giugno. Migliaia di civili in sit-in pacifico sono stati attaccati e crivellati di colpi. 500 feriti, 108 morti. E almeno 70 casi di stupro. I numeri del Central Committee of Sudan Doctors sono ufficiosi, perché negli ospedali di Khartoum persino i medici in servizio sono stati picchiati e minacciati di morte per evitare che diffondessero cifre, stime e racconti di ciò che avevano dovuto soccorrere. E perché spesso, dolorosamente, non c’è proprio possibilità di cura.

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Dopo le notizie diffuse sull’ennesimo truculento massacro di civili e l’inizio dello sciopero generale in tutta la nazione, l’Unione Africana ha sospeso il Sudan con effetto immediato. Il paese non potrà partecipare a nessuna iniziativa dall’organizzazione panafricana finché non verrà istituito un governo civile di transizione verso le prime elezioni democratiche da 30 anni a questa parte. Il primo ministro etiope Abiy Ahmed si è assunto il compito di aprire un negoziato con il presidente del Sudan in carica, il generale Abdel Fattah Abdelrahman Burhan, e dopo una visita ufficiale ha lasciato un gruppo di osservatori che potrebbero arrivare ad un nome super partes per avviare la transizione. L’attenzione sul Sudan ora c’è. E dopo l'intervento via Instagram di Rihanna sul Sudan, altre celeb prendono posizione in merito. Su Politico, George Clooney ha scritto un lungo articolo, co-firmato assieme a John Prendergast, per invitare il Congresso degli Stati Uniti a intervenire in Sudan. Sostiene Clooney che gli USA dovrebbero principalmente investigare su conti bancari internazionali dei janjaweed, bloccando così l’afflusso di capitali che consentono di finanziare le loro attività paramilitari. Dal Congresso non ci sono state ancora iniziative. L’Europa, dal canto suo, non si è ancora pronunciata apertamente sulla situazione nel paese africano. La strada per la democrazia in Sudan è ancora molto lunga.