Chi di noi è potuto sfuggire al fascino del film Piccole Donne di Greta Gerwig? Pochissime, ma il merito di questo successo non è solo della regia, della scrittura e delle qualità senza tempo di un capolavoro letterario, oggi più attuale che mai. Grandissima parte del fascino del film, ammettiamolo, sono i suoi costumi: un accattivante e solo apparentemente anacronistico insieme di colori, tessuti, forme capace non solo di riflettere le singole personalità delle ragazze ma anche di regalare una vibe attuale e anticonformista al look del film. Jacqueline Durran è la persona che dobbiamo ringraziare per questo capolavoro nel capolavoro, frutto di una ricerca maniacale e della passione per il mix di stili e di epoche che le ha fruttato la nomination per Best Costume Design agli Oscar (statuetta che ha già vinto nel 2012 per Anna Karenina). Non a caso, è a lei che dobbiamo il famosissimo abito verde di Keira Knightley in Atonement e altrettanto non a caso Durran è l’autrice dei costumi di un altro film protagonista della stagione dei premi di Hollywood, 1917 di Sam Mendes.

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Wilson Webb
Una scena tratta dal film "Piccole Donne"

La descrizione che Durran ha dato dell’abito verde è forse la più chiara sintesi del suo metodo di lavoro: è “qualcosa che potresti metterti addosso il giorno più caldo dell’anno”, un insieme di sensazioni tattili e visive più che il tentativo di rappresentare filologicamente un look del 1934; è una combinazione di elementi d’epoca e di suggestioni, creata da qualcuno che gode di una prospettiva contemporanea. Questa logica ha guidato anche la sua scelta nel costume design di Little Women, che è partita dalla documentazione dell’epoca, concentrandosi non tanto sulla generica rappresentazione della donna ma (soprattutto per Jo), sul modo di vestire delle donne radicali e anticonformiste: per i costumi di Marmee l’ispirazione è stata ad esempio Abby May Alcott, madre di Louisa e attivista per ogni genere di cause sociali, nonché trascendentalista e depositaria di quei valori che permeano Piccole Donne, dall’idealismo all’amore per la natura.

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Wilson Webb / Courtesy Photo

Ma naturalmente il lavoro più importante è stato fatto sulle ragazze, per le quali a partire dall’epoca, Durran ha operato in sottrazione (eliminando gli strati di mutandoni, camiciole, crinoline, sottogonne, corpino tipici dell’era Vittoriana) e differenziazione, regalando a ognuna una palette di colori personale ispirata ai quaderni che la madre regala loro nel libro - verde per Meg (a cui poi Durran ha aggiunto il lavanda), marrone e rosa per Beth, azzurro per Amy, indaco e rosso per Jo - e uno stile ben definito che corrisponde alla loro personalità. Quindi Jo non porta il corsetto, indossa i pantaloni e ha un look che privilegia la praticità e un pizzico di androginia, Amy è quella che utilizza di più i decori e il massimalismo, mentre l’aspetto di Beth è sempre pensato per la comodità dello stare in casa piuttosto che per uscire. Meg pare sia stata la più difficile da individuare essendoci pochi riferimenti nel libro, il che è curioso dato che la sorella maggiore ha ben quattro storyline legate agli abiti nel libro: quella della caviglia slogata per le scarpe strette alla festa, quella del guanto perduto, quella legata al ballo delle debuttanti e quella legata alla stoffa comprata da sposata, che mette in crisi il bilancio familiare. Alla fine Durran si è diretta verso uno degli stili più in voga all’epoca, derivato dai preraffaeliti, dandole un’allure romantica e gotica-medioevale.

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Per Timothée Chalamet/Laurie sono state fatte le maggiori concessioni rispetto alla realtà dell’epoca perché non gli donavano per nulla le giacche squadrate vittoriane e pertanto si è deciso di dargli un’aria sempre scomposta, un po’ vissuta, giocando sul gender swap a confronto con i look di Jo e regalando anche a lui un tocco androgino. Al di là della resa estetica, però, nel cuore delle scelte dei costumi di Little Women c’è la fondamentale comprensione dell’importanza degli abiti per le donne, specialmente per le donne dell’epoca, che c’è anche nel libro della Alcott. Vestiti come veicolo per esprimere se stesse quando la società non ne forniva di migliori, comunicatori di status e di intenzioni, linguaggio segreto tra donne che diventa, all’occasione alfabeto del corteggiamento (il guanto di Meg, appunto). Superando il pregiudizio che vuole l’interesse per gli abiti frivolo e inconsistente, dietro l’ossessione delle ragazze per fiocchi, tessuti e capelli c’è un intero mondo di personalità chiuse nei quattro muri di una casa, costrette dalle convenzioni a incanalarsi in una ristrettissima lista di interessi e questo sia Gerwig che Durran lo capiscono vero: allora vediamo le ragazze scatenarsi nella creazione degli abiti per il teatro, entusiasmarsi per un vestito prestato e capiamo che ognuna di queste scelte è un messaggio preciso che ci parla del desiderio di esprimersi attraverso l’arte o della frustrazione della povertà o come nel caso di Jo, della voglia di rompere le convenzioni.

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Regista e costume designer sapevano che per esprimere tutto questo non sarebbero bastati abiti d’epoca, forse poco comprensibili per le ragazze di oggi, e che c’era bisogno di rendere le ragazze più accessibili per un pubblico contemporaneo. Rispetto alla versione del 1994 di Gillian Armstrong, ad esempio, il film di Greta Gerwig è un trionfo di colori e sovrapposizioni (anche nei tessuti d’arredo, nei mobili e nelle decorazioni) che alcuni hanno paragonato al particolarissimo mix and match estetico del brand Anthropologie, ma è anche caratterizzato dalla cura di alcuni dettagli che nella versione degli anni Novanta, già comunque estremamente attenta agli elementi femministi e innovativi del libro, non godevano di altrettanta attenzione. Il più importante riguarda sicuramente un momento chiave della storia, quando Jo vende i suoi capelli per aiutare la madre a raggiungere il padre: quelli che nel libro sono descritti come bellissimi e che nel film di Armstrong erano fin troppo chiaramente una parrucca che rimediava ai capelli corti di Winona Ryder, qui sono effettivamente una massa dal colore e dalle onde meravigliose, che donano a Saoirse Ronan un’allure preraffaelita. È una differenza apparentemente minima che ci dice però moltissimo sulla sensibilità della regista, così fine da comprendere che in questo caso la resa estetica della chioma di Jo rappresenta molto di più ed è tutt’altro che un dettaglio, perché la lettrice/spettatrice deve soffrire con il personaggio e comprendere la portata del suo gesto; più i capelli sono belli, più sarà immediato per chi guarda il messaggio, ovvero che un gesto del genere sarebbe stato un sacrificio enorme per una donna di quel periodo storico, perfino un maschiaccio come Jo. Proprio in questo lavoro di cesello le professionalità di Gerwig e Durran si incontrano alla perfezione, creando un universo estetico e narrativo in cui i due piani si compenetrano e si arricchiscono a vicenda, perché raccontare bene le donne significa non soltanto dare tridimensionalità ai caratteri ma anche comprendere a fondo le gabbie, per quanto dorate, in cui sono rinchiuse e quindi trasmettere l’ambivalenza dell’abbigliamento, veicolo unico di espressione e creatività che ci ha reso libere nell’oppressione, diventa indispensabile per mantenere attuale la forza dirompente di Piccole Donne attraverso i secoli.

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