Dagli inizi nelle trincee di guerra ai tailleur di Chanel e al fast fashion: storia di un classico degli armadi, la t-shirt bianca, e dei marchi culto di ieri e oggi. Una tela, rigorosamente bianca, nella quale tutti si sono, indistintamente riconosciuti, da 60 anni a questa parte. Sulla t-shirt sono nate mitologie cinematografiche e personali, si sono stampati gusti musicali e messaggi politici, e si sono costruiti eserciti. Non si tratta qui di un'esagerazione, perché se il pezzo del guardaroba è diventato una divisa ideologica adottabile in massa, l'origine è proprio di stampo militare. La indossavano nel 1910 i soldati della marina americana, era una dotazione ufficiale del loro armadio, da portare a contatto con la pelle, sotto gli altri strati di abbigliamento richiesti dalla precisa, e rigorosa, regolamentazione. Ci volle il genio di Coco Chanel per tradurne la texture, quella del jersey di cotone, di solito utilizzata per l'abbigliamento intimo, in capi che si offrivano orgogliosamente agli sguardi, senza più nascondersi.

Considerato capo da relegare alla dimensione dell'infanzia, o al massimo della pre-adolescenza in tumulto ormonale, entra di diritto nella mitologia al maschile, però, come uniforme unica e indiscutibile della ribellione giovanile, di una rabbia che non riesce a trovare sfogo, di ideali che non trovano corrispondenza nel cinismo del mondo adulto, e che però si vestono tutti di quella maglietta. Le macchie sulla t-shirt bianca diventano così medaglie al valore, sinonimo di una vita sporca e pericolosa (alla voce Marlon Brando in Un tram chiamato desiderio, o, ancora James Dean in Gioventù Bruciata). Un mito che all'epoca aveva un nome solo, quello di Hanes, marchio americano nato nel 1901, da cui si rifornivano entrambi gli attori.

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Marlon Brando, 1950

La traduzione al femminile arriva più o meno negli Anni 60, trasformando un capo nato senza alcun intento estetico in un'arma raffinatissima di seduzione. In Vita privata di Louis Malle (1962) Brigitte Bardot indossa una maglietta bianca, senza null'altro sotto, mentre, seduta ai bordi del letto, riflette pensosa sulla sua carriera, velocissima, che l'ha trasformata da ingenua ragazza svizzera, in modella prima, e star cinematografica poi. Nella pellicola, ispirata parzialmente alla vita vera di B.B. figura, nel ruolo di Fabio, uomo del quale Jill/Brigitte si innamora, un altro tropo, in carne e ossa, della sensualità raffinata, e però italianissima: Marcello Mastroianni. Certo a Brigitte per sedurre non serviva la white t-shirt, ma quella maglietta da indossare morbida, senza pretese, senza fronzoli o paramenti, ha l'innocenza dell'infanzia, è naïf al punto di aggiungere purezza, e allo stesso tempo erotismo, ad un corpo, e un volto, nato per rapire sguardi. Il capo sposa da subito, in effetti, i gusti delle donne francesi. Juliette Greco lo indossa con i jeans, Jane Birkin – francese d'adozione – lo porta con i pantaloni a zampa, le ballerine ultra-flat che sembrano uscite direttamente dal retro di un teatro, da qualche studio di prova di danza classica, e un secchiello in paglia intrecciata. A completare l'immagine da seducente ragazza arrivata dalle campagne della Provenza – e invece era smaliziata al punto di conquistare lo chansonnier più maledetto di tutti, Serge Gainsbourg – il cappello in rafia con falda larga, e fiori a decorazione.

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Kurt Cobain, 1993

Sinonimo di ribellione, e non più piegato ad estetiche zuccherose, torna ad esserlo negli Anni 80 e 90: chi lo indossa è un membro ad honorem della working class (Bruce Springsteen sulla copertina di Born in the USA) o è, sempre e costantemente, contro (Kurt Cobain su tutti). Una mitologia a cui fa l'occhiolino Karl Lagerfeld, direttore creativo di Chanel, che, avendo imparato a memoria la lezione della fondatrice del marchio, nel 1991 lo abbina ai tailleur in tweed, nel frattempo divenuti sinonimo dell'eleganza made in France. La combo, improbabile, ma, forse per questo, di grande successo, sfila addosso ad una delle top più raffinate che abbiano mai calcato le passerelle: Linda Evangelista. Sdoganata e amata dal fashion system che conta, da allora di t-shirt bianche se ne sono viste di tutte le versioni: in pregiato cotone fatto sbarcare direttamente dalla Sea Island – la versione più lunga esistente della fibra, di finezza e lucentezza senza pari – o in mischie preziose di cotone e seta.

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Dalla sfilata Chanel Spring-Summer 1990

Un'esagerazione, forse, per un capo tra i pochi, ad essere simbolico di un sogno e di un'intera narrazione, raggiungibile democraticamente da tutte le tasche. Investire su una t-shirt in cotone di qualità ( meglio ancora se biologico) si può, e si deve, senza però dare fondo ai risparmi. Un concetto chiaro anche ai marchi di fast fashion, che ne producono di qualità, magari in lyocell, alternativa ecologica alla viscosa, che viene disciolta in solfuro di carbonio, o, appunto, in cotone biologico – e quindi privo di qualunque tipo di sostanze chimiche – come nella collezione Conscious di H&M. Meno economiche, ma dal costo sostenibile, quelle di A.P.C. (destinate a durare non per una vita intera, ma di certo per diverse stagioni). Sacro Graal della religione del minimalismo, estensione della personalità di chi le indossa (e quindi destinate a modificarsi, seppur leggermente, nel corso degli anni) chi è nato negli Anni 80 e 90, le ha in effetti comprate in blocco da Fruit of the loom, di quel cotone ruvido, e indistruttibile, per poi affidarle allo stampatore di fiducia, per farsi imprimere il pattern, il simbolo o il logo del gruppo musicale di riferimento, prima dell'avvento del fenomeno del merchandising ufficiale (chi scrive ne ha una collezione pressoché infinita, lunga quanto una playlist di Spotify). Feticcio portato all'estremo da Olivia Palermo – socialite newyorchese alla quale pare addirittura sia ispirata la figura über snob di Blair Waldorf di Gossip Girl – che con una gonna in tulle e una t-shirt Fruit of the Loom è convolata a nozze con Johannes Huebl, la t-shirt bianca è nata, e morirà democratica, al netto degli eccessi e delle mattane modaiole. L'unico consiglio è crearsene un archivio – ragionato – da usare in rotazione, da indossare, o anche guardare, con la nostalgia con la quale si sfoglia un album di fotografie, per ricordarci come eravamo, errori (musicali e stilistici) compresi.

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