Il mio primo ricordo di Lilli Gruber non è Lilli Gruber, ma Alessandra Casella che ne fa la parodia alla Tv delle Ragazze, lo storico programma di satira di Serena Dandini, Valentina Amurri e Linda Brunetta. Ero una bambina, nel 1988, e certo non guardavo il telegiornale con attenzione ma iniziai a interessarmi al TG2 proprio grazie all’imitazione della Casella che (per quanto esclusa dallo show revival del programma in occasione dei suoi 30 anni) catturava perfettamente quella postura a tre quarti che poi Aldo Grasso consacrò nell’enciclopedia della televisione.

Si vedeva che Lilli Gruber, all'anagrafe Dietlinde, era fatta di una pasta diversa dalle altre donne che c’erano in televisione all'epoca: era sexy, era consapevole, era sicura di sé, era intelligente, era ambiziosa e sapeva comunicarlo anche solo con il tono di voce, il modo in cui si sedeva e quello sguardo che lo capivi, non era tanto incline ad abbassarsi in preda alla timidezza.

Lilli Gruber è stata una presenza fissa nella vita di ogni bambina e ragazzina cresciuta nei tardi anni Ottanta, prima come mezzobusto al telegiornale poi come inviata al Muro di Berlino, in ex Jugoslavia, in Iraq: una donna inconsueta anche in quegli anni in cui sembrava che le donne sarebbero arrivate dappertutto (spoiler, non è successo), un’inviata di guerra dal piglio altoatesino che sembrava perfettamente a suo agio in ogni circostanza, mai un capello fuori posto, sempre perennemente in controllo di sé. Era una donna come in giro ce n’erano poche, e per quanto la vox populi si affannasse a depotenziarla riducendola a oggetto del desiderio (non c’è da meravigliarsi che non abbia mai particolarmente amato l’imitazione di Casella, che la riduceva alla sua facile componente seduttiva), all’amante di qualcuno di importante o allo stereotipo della femmina “mascolinizzata” lei scompigliava sempre le carte senza lasciare spazio per farsi definire da altri, anche a prezzo di una carriera che le avrebbe senz’altro permesso, fosse stata incline a infilarsi in un ruolo più rassicurante, di aspirare alla prima fila del prime time à la Santoro.

Lilli Gruber ha preferito non recitare una parte già pronta per lei nel copione di come deve essere una femmina, dirigendosi sulla scrittura e su progetti giornalistici di prestigio oltre che sulla politica, diventando parlamentare europea per 4 anni, membro del Partito Socialista Europeo e regolare partecipante alle riunioni del Gruppo Bilderberg; fino ad approdare ormai più di 10 anni fa a La7 con Otto e Mezzo, che ha trasformato pian piano in un appuntamento irrinunciabile per la politica italiana.

Non tante donne in Italia hanno un programma giornalistico da più di 10 anni nella fascia di access prime time, anzi la maggior parte delle donne non vengono neppure INVITATE a parlare di politica in TV prima delle dieci di sera, specialmente senza un cognome o un protettore (maschio) importante. Questo non ne sminuisce certo la bravura, anche perché essere femmina in televisione significa essere più brava della maggior parte dei colleghi maschi e spesso avere anche un paio di altre doti aggiuntive (come la bellezza) che ai maschi non sono richieste, anzi evidenzia ancora di più il fatto che dove sta Lilli Gruber adesso, di donne intorno ce ne sono poche e non a caso lei si batte da anni per metterlo in evidenza, parlandone in ogni sede possibile.

Lilli Gruber è un raro caso di femminista di seconda generazione che non si limita a “fare il suo” ma sembra interessata a evidenziare il suo ruolo di privilegiata, usando il suo successo anche per sottolineare la mancanza di altre voci femminili, il sessismo nella politica e nella società italiana, persino la visione limitata del ruolo della donna da parte delle politiche che ospita. Come nel caso del celeberrimo litigio in diretta con Giorgia Meloni sul Congresso delle Famiglie.

Sarebbe facile scambiarla per una semplice blastatrice, che usa ironicamente il suo ruolo di conduttrice per sottolineare le deboli argomentazioni dei propri ospiti e sicuramente Gruber è anche questo, una che risponde alle lettere dei lettori sul Corriere con frasi come “caro Carlo, si prenda una buona birra, si metta davanti alla tv e guardi una partita di calcio, mansioni nobili poetiche ed efficaci, tradizionalmente riservate al suo genere” e che finisce in tutte le rassegne stampa con regolarità, nella maggior parte dei casi per aver zittito con commenti sagaci uno dei maschi presenti in studio, da Salvini a Damilano.

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Ma quando a essere blastatrice è una donna e non uomo, le cose si complicano: una donna che zittisce un uomo fa più notizia, scandalizza di più, è messa in primo piano e cirticata per i toni e non per i contenuti. Secondo i media italiani Lilli Gruber non perde la calma, “sbrocca”. Non è provocatoria, è “irritante”. Non ha carisma, è “aggressiva”. Non risponde a tono, “sbotta”. Per non parlare dei commenti mossi al suo aspetto fisico e sul suo abbigliamento, che spaziano dallo sminuente all’offensivo.

È la tipica narrazione legata alla donna di potere, nulla di straordinario, siamo abituate a veder condannare in una femmina comportamenti ambiziosi e assertivi che in un uomo vengono considerati pregi ma quasi nessuna riesce a portarla sulle spalle con la stessa classe di Lilli Gruber, sarà che da tedesca in Italia forse ormai si è abituata a sentirsi chiedere di “sorridere di più” ed essere meno austera, più gentile, più “femminile”. Come se queste fossero le doti richieste per fare buon giornalismo.

La presenza di Gruber in televisione è quindi un elemento di rottura da non sottovalutare, perché una donna che non ha paura di essere se stessa e parlar chiaro, anche in uno studio pieno di maschi, e che detiene il pieno controllo creativo del proprio programma è un’assoluta rarità nel nostro Paese.

Una donna che fa notizia grazie a questo, lo è ancora di più.

Che ci piaccia o meno il suo stile, il suo modo di presentarsi (o il fatto che scelga autori maschi per affiancarla a Otto e Mezzo) quando guardiamo Lilli Gruber vediamo altro: non la sexy seduta in punta di poltrona ma l’arguzia nel gestire il dialogo politico; non la pettinatura, il volto dal contouring deciso, o le giacche di pelle dalle spalle larghe come lei: guardiamo cultura e competenza. Ovvietà? Non proprio. Se impareremo/continueremo a farlo, scopriremo di avere tra le mani un patrimonio nazionale che continua a proporre, in un Paese culturalmente ancora lontano dalla parità dei sessi, un modello di donna che non si stanca mai di ricordare all’Italia, ogni sera, quanto questo sia tutt’altro che scontato.